Il libro racconta la storia di Balbir Singh, un bracciante indiano che ha vissuto per sei anni in condizioni di schiavitù nell'Agro Pontino. Balbir ha deciso di ribellarsi e di lottare per la sua libertà e la sua dignità, rischiando la vita più volte. La sua storia è un esempio di coraggio e di resistenza, un monito per tutti noi, perché ci ricorda che la schiavitù esiste ancora, anche nel nostro paese.
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"Il mio nome è Balbir" è un libro che racconta la storia di Balbir Singh, un bracciante indiano che ha vissuto per sei anni in condizioni di schiavitù nell'Agro Pontino, a soli 80 km da Roma. Il libro, scritto da Marco Omizzolo e Balbir Singh stesso, è un'inchiesta giornalistica che denuncia lo sfruttamento lavorativo e la violenza che molti migranti subiscono in Italia.
Balbir lavorava dalle 16 alle 18 ore al giorno per una retribuzione che variava tra i 50 e i 150 euro al mese. Era costretto a rubare il cibo dal suo padrone, che lo picchiava regolarmente. La sua vita era un inferno, ma Balbir ha deciso di non rassegnarsi. Ha deciso di ribellarsi, di lottare per la sua libertà e la sua dignità, rischiando la vita più volte.
La storia di Balbir è un esempio di coraggio e di resistenza. È un monito per tutti noi, perché ci ricorda che la schiavitù esiste ancora, anche nel nostro paese. È un libro che ci invita a guardare l'invisibile, a non dimenticare le persone che soffrono e a lottare per un mondo più giusto e solidale.
Il libro racconta anche la lotta di Balbir per ottenere giustizia. Il suo padrone è stato condannato a 5 anni di carcere. Questa è una vittoria, ma è solo un piccolo passo verso un futuro migliore. Balbir è un simbolo di speranza, un esempio di come anche dalle situazioni più difficili si possa uscire. La sua storia ci insegna che la lotta per la libertà e la dignità vale la pena.
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